STOP al TTIP

23/05/2016

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TTIP: il “no” della società civile contagia l’Europa

Articolo di Anna Toro

Martedì, 17 Maggio 2016

Foto: A. Toro ®

Commercianti, agricoltori, allevatori, sindaci, piccoli imprenditori, attivisti, studenti, famiglie: la varietà, anche geografica, di cittadini presenti alla manifestazione nazionale del 7 maggio a Roma per dire “Stop al Ttip” ha mostrato la concreta preoccupazione che tutti gli strati della società stanno nutrendo verso il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, attualmente in fase di negoziazione tra l’Europa e gli Stati Uniti. Un patto per il libero scambio che, se approvato, potrebbe cambiare la vita di milioni di persone, con enormi conseguenze su tutti i settori economici: dall’agricoltura alla finanza, dal tessile al settore alimentare, dai servizi ai lavori pubblici.

L’obiettivo del Ttip, infatti, non è solo la riduzione o cancellazione dei dazi doganali (già di per sé molto bassi) per le aziende che commerciano da entrambe le sponde, ma soprattutto l’abbattimento di quelle barriere “non tariffarie” fatte di regolamentazioni e standard di controllo, sicurezza e qualità dei prodotti che in Europa sono molto più severe rispetto a quelle degli Stati Uniti. Ecco perché sono soprattutto gli Usa a premere affinché la firma del trattato avvenga al più presto, possibilmente entro l’anno.

Anche sulla spinta della società civile, l’Europa appare invece più reticente e, al 13° round dei negoziati cominciati nel 2013, la situazione sembra essere arrivata a un punto di stallo. “Il prossimo incontro si svolgerà a luglio – spiega Monica di Sisto, membro di Fairwatch e portavoce della Campagna Stop TTIP Italia – Ma l’intesa tra i due partner è così lontana che, per chiudere a tutti i costi, si rischia di firmare un accordo cornice, ovvero uno di quegli accordi che hanno una bella intestazione ma che dentro son vuoti”. Dopo la firma finale dei negoziatori sarà infine il parlamento europeo ad approvare il Ttip, andando al voto. “Avere una cornice vuota – continua Di Sisto – significherebbe votare un assegno in bianco, e questo è molto pericoloso”.

Ipotesi che però, al momento, appare lontana. Soprattutto dall’uscita del dossier di Greenpeace Olanda, che il 2 maggio ha reso pubbliche alcune parti del trattato finora riservate riguardanti cibo, cosmetici, agricoltura, pesticidi e telecomunicazioni, alcuni stati hanno iniziato a fare marcia indietro di fronte alle pressanti richieste americane. Se in Germania il fronte del no è attivo da tempo, a livello istituzionale è la Francia ad aver minacciato addirittura il proprio voto contrario al trattato. Ma non solo: anche in Italia, il blitz di Greenpeace ha contribuito anche ad aumentare il dibattito pubblico all’interno della società civile, prima limitato a movimenti e associazioni che con fatica cercavano di carpire informazioni sui contenuti e le fasi del negoziato.

Le trattative del Ttip – e questo accade in genere per tutti i negoziati commerciali bilaterali – si svolgono infatti in totale segreto, non solo dell’opinione pubblica ma anche degli stessi parlamentari eletti, che finora hanno potuto consultare parte di questi documenti così complicati in stanze di sicurezza controllate dalle guardie, senza l’aiuto di consulenti esperti e senza poterne parlare con nessuno. “In Europa, dopo forti pressioni, hanno aperto queste sale due mesi fa – racconta Elena Mazzoni del coordinamento di Stop TTIP in Italia – Da noi ancora non ci sono, e la presidentessa della Camera Boldrini si è fatta portavoce della nostra richiesta di aprire una sala anche in Italia, alla Farnesina, per i nostri parlamentari nazionali”.

Solo nei “leaks” di Greenpeace si è scoperto, tra le varie cose, che nella bozza del trattato non c’è alcun riferimento agli accordi sul clima di Parigi. Altro punto controverso è stata fin da subito la richiesta all’Europa di abbandonare il principio di precauzione preventiva per quanto riguarda l’utilizzo di sostanze potenzialmente pericolose per l’ambiente e per la salute. Questo principio impone alle aziende europee di provare che una sostanza non è nociva prima di metterla in commercio. Negli Stati Uniti, al contrario, la sostanza viene prima immessa sul mercato, e poi spetta al cittadino l’onere di provarne la nocività attraverso una class action. E ancora: un’invasione sui nostri mercati di carne clonate e trattate con ormoni “vietati”, prodotti ogm, riduzione della tutela dei marchi di qualità e della trasparenza nelle etichettature sono alcuni tra i rischi che un appiattimento totale sulle richieste americane potrebbe comportare per l’Italia e per l’Europa intera.

Il sospetto che il Ttip convenga soprattutto alle multinazionali è dato anche dall’adozione del cosiddetto Investor-state dispute settlement (Isds), ovvero la “risoluzione delle controversie tra investitore e stato”, spesso prevista negli accordi bilaterali tra gli Stati simili al Ttip. L’Isds permetterebbe alle aziende (quelle che se lo possono permettere) di “portare in tribunale un governo che – attraverso l’introduzione di regolamenti più restrittivi a tutela dell’ambiente o dei diritti sociali – dovesse minacciare i loro profitti, reali o attesi che siano”. Un tribunale a porte chiuse, privato e sovra-comunitario, in cui le leggi e la politica nazionale non hanno alcun potere di intervento. Il fine, dicono gli attivisti di Stop-Ttip, è quello di “reclamare grandi somme di denaro come indennizzo anche per l'applicazione di leggi adottate democraticamente per proteggere l'interesse pubblico”.

Il comitato snocciola i dati mondiali, con 514 dispute di questo tipo, solo tra quelle rese note. “Circa il 64% delle dispute (329 casi) sono state promosse da imprese europee e statunitensi. Ad oggi, 15 paesi europei sono già stati attaccati in almeno una di queste dispute. Un terzo dei ricorsi si è chiuso a favore delle multinazionali e un altro terzo circa è finito con un patteggiamento, in cui i governi hanno dovuto fare concessioni economiche o normative. Quindi nella media di due casi su tre i governi perdono qualcosa contro le multinazionali”. Il timore è che gli Stati perdano parte della loro sovranità nel decidere di modificare le leggi per fini di interesse pubblico, se questi cambiamenti dovessero andare a scapito dei piani di investimento futuri di imprese private.

“Il Ttip in realtà è più che una questione commerciale. E’ una questione politica” ha commentato l’ex parlamentare statunitense Sharon Sweet durante il suo tour italiano insieme alla coalizione Stop Ttip, per raccontare che anche ‘dall’altra parte dell’oceano’ i timori sono gli stessi. “E’ un attacco forte e diretto alla democrazia rappresentativa per come la conosciamo – spiega – Attraverso questo trattato è in atto il tentativo di spostare tutte le decisioni dagli eletti a degli esperti commerciali non eletti”.  

 

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